Stemma del Corpo dei Paggi

La vita all’interno del corpo era infelicissima sotto il governo dispotico del colonnello. In tutti i convitti gli ultimi venuti sono sottoposti a umilianti persecuzioni. I novellini vengono così messi alla prova. Cosa valgono? Faranno la spia? Ai vecchi poi piace ostentare con i nuovi venuti la superiorità che deriva loro dalla lunga familiarità con l’ambiente: avviene in tutte le scuole e in tutte le prigioni. Ma sotto Girardot queste persecuzioni assumevano un carattere più aspro e venivano inflitte non dai compagni, ma dagli allievi della prima classe, dai paggi che erano già sottufficiali e ai quali Girardot aveva creato una posizione tutta particolare e privilegiata. Il suo sistema era di concedere loro assoluta libertà, di fingere di ignorare gli orrori che si permettevano e di mantenere per mezzo loro una disciplina severissima. Rispondere a un ceffone dato da un paggio della prima classe, avrebbe voluto dire, ai tempi di Nicola Primo, essere spedito a un battaglione «per i figli dei semplici soldati» se la cosa diventava pubblica; ribellarsi in qualsiasi modo ai capricci di uno di questi paggi aveva subito questa conseguenza: che i venti giovanotti della prima classe, armati delle loro pesanti righe di quercia, si radunavano in una sala e, con la tacita approvazione del Girardot, picchiavano a morte il ragazzo colpevole di un tale spirito di insubordinazione.

Così la prima classe faceva quello che voleva e non più tardi dell’inverno precedente al mio arrivo uno dei loro divertimenti prediletti era stato di condurre i «novellini» in una stanza, vestiti delle sole camicie da notte, e di farli correre in giro come cavalli al circo, mentre essi, armati di grosse fruste di caucciù, stando gli uni in mezzo, gli altri intorno alla sala, frustavano i ragazzi spietatamente. Di solito questo circo finiva all’orientale, in una scena abominevole. La morale che allora predominava e i discorsi osceni che si facevano nella scuola su ciò che succedeva dopo uno di questi «circhi» erano tali che è meglio non parlarne. Il colonnello era al corrente di tutto ciò. Aveva organizzato un sistema di spionaggio completo e nulla gli sfuggiva. Tutto andava bene finché non si scopriva che egli sapeva. Il suo sistema di disciplina era fondato sull’ignorare ciò che faceva la prima classe.  Ma uno spirito nuovo aleggiava sulla scuola e solo pochi mesi prima del mio arrivo era avvenuta una rivoluzione. Quell’anno la terza classe era diversa da quello che era stata fino allora. Vi erano molti giovani che avevano studiato e letto parecchio: alcuni di essi diventarono poi uomini notevoli. Feci conoscenza con uno di loro – lo chiamerò von Schauff – che leggeva allora “La critica della ragion pura” di Kant. Vi erano poi fra di essi alcuni dei giovani più robusti della scuola. Il ragazzo più alto del corpo era in quella classe e anche un giovane fortissimo, Kochtov, grande amico di von Schauff.

                Gli allievi di questa terza classe non subirono il giogo dei paggi della prima con la docilità dei loro predecessori; erano disgustati di quello che succedeva e, in seguito a un incidente che preferisco non raccontare, ebbe luogo una battaglia fra la terza e la prima classe e ne risultò una solenne bastonatura inflitta ai paggi anziani dai loro sottoposti. Girardot soffocò la faccenda, ma l’ascendente della prima classe era svanito. Le fruste di caucciù rimasero, ma non furono più adoperate. I circhi e altre cose simili appartennero al passato.

Fu tanto di guadagnato; ma l’ultima classe, la quinta, composta quasi tutta di ragazzi entrati da poco nella scuola, doveva ancora obbedienza ai paggi della prima. Avevamo un bellissimo giardino, pieno di alberi secolari, ma i ragazzi della quinta lo godevano ben poco; erano obbligati a correre qua e là mentre i giovani della prima stavano seduti a chiacchierare, o dovevano riportare le palle quando questi signori giocavano. Due giorni dopo il mio arrivo alla scuola, visto come stavano le cose in giardino, non vi andai, ma rimasi in casa. Stavo leggendo, quando un «anziano» dai capelli rossi e la faccia macchiata di lentiggini mi venne incontro e mi ordinò di scendere immediatamente in giardino per partecipare al giuoco.

– Non vengo; non vedete che sto leggendo? – gli risposi.

Il suo viso antipatico si sfigurò per l’ira. Stava per scagliarsi contro di me: mi misi sulla difensiva. Si provò a colpirmi in faccia con il berretto, io mi schermii, allora buttò il berretto in terra.

– Raccattalo.

– Se lo raccatti lei.

Una simile mancanza di obbedienza era sconosciuta nella scuola. Non so perché non mi bastonò spietatamente lì per lì. Era molto più grande e più robusto di me. L’indomani e i giorni seguenti ricevetti altri ordini simili, ma rimasi ostinatamente appartato. Cominciarono allora una serie di meschine e seccantissime persecuzioni, sufficienti a far disperare qualunque ragazzo. Fortunatamente sono sempre stato di un temperamento gioviale e rispondevo scherzando o fingevo di non accorgermene. Ma anche questo presto finì. Incominciò a piovere, e passavamo quasi tutto il giorno in casa. In giardino quelli della prima classe fumavano liberamente, ma, quando si stava dentro, la sala da fumare era «la torre». Questa era tenuta pulitissima e vi era sempre il fuoco acceso. Gli «anziani» punivano severamente il ragazzo che trovavano per caso a fumare, ma essi stavano continuamente seduti intorno alla stufa a chiacchierare e a godersi le sigarette. L’ora preferita era per loro dopo le dieci di sera, quando avrebbero dovuto essere già a letto; prolungavano la serata fino alle undici e mezzo e per proteggersi da una sorpresa da parte di Girardot ci costringevano a montare la guardia. I ragazzi della quinta dovevano alzarsi a turno dal letto, due alla volta, e restare sulle scale fino alle undici e mezza per dare l’allarme se si avvicinava il colonnello.

Ci si mise d’accordo per mettere fine a queste veglie notturne. Le discussioni furono lunghe e ci si consigliò con le classi superiori sul da farsi. Finalmente si arrivò a questa decisione: «Rifiutatevi concordemente di montare la guardia e quando cominceranno a battervi, come è certo che faranno, andate per quanto possibile tutti insieme e chiamate Girardot. Egli sa già tutto, ma allora sarà obbligato a intervenire». Gli esperti in questione d’onore decisero che questo non poteva essere qualificato spionaggio: gli «anziani» non si comportavano verso gli altri come dei compagni. Quella sera doveva montare la guardia il principe Chahovskoi, un vecchio allievo, e Selanov, un nuovo venuto, ragazzo timidissimo dalla voce femminile. Chahovskoi fu comandato per il primo, ma rifiutò di andare e fu lasciato in pace. Allora due paggi andarono dal timido nuovo venuto che era a letto; e siccome si rifiutò di obbedire, cominciarono a fustigarlo brutalmente con le pesanti cinghie di cuoio. Chahovskoi svegliò diversi compagni che gli si trovavano vicini e tutti insieme corsero da Girardot.

                Anch’io ero a letto quando due mi si avvicinarono e mi ordinarono di montare la guardia. Mi rifiutai. Subito afferrarono due paia di bretelle – invariabilmente si posavano gli abiti in perfetto ordine su di una panca accanto al letto, le bretelle sopra e la cravatta attraverso – e cominciarono a fustigarmi. Seduto sul letto, mi coprivo con le mani e avevo già ricevuto diversi colpi, quando si udì l’ordine: «La prima classe dal colonnello!». I feroci combattenti si ammansirono improvvisamente e frettolosamente rimisero a posto i miei abiti.

– Non una parola! – mi sussurrarono.

– Mettete la cravatta al suo posto! – gridai loro, mentre le spalle e le braccia mi bruciavano per i colpi ricevuti.

Quel che dicesse Girardot alla prima classe non si seppe mai; ma il giorno dopo, mentre stavamo allineati, pronti per avviarci al refettorio, il colonnello ci parlò con aria compunta, dicendo quanto era triste pensare che un paggio della prima classe avesse colpito un ragazzo che si rifiutava a ragione di ubbidirgli. E quale ragazzo? Un nuovo venuto, un ragazzo timido come Selanov! La scuola intera fu nauseata di questo discorso da gesuita. Fu senza dubbio un colpo per l’autorità di Girardot, ed egli se ne ebbe molto a male. Aveva per la nostra classe e per me in particolare molta avversione (gli era stato raccontato del mio rifiuto a partecipare al giuoco in giardino) e non perdeva l’occasione di manifestarci i suoi sentimenti.

Durante il primo inverno passai molto tempo in infermeria. Dopo un attacco di tifo, durante il quale il direttore e il dottore ebbero per me cure veramente paterne, soffrii di attacchi di gastrite gravi e prolungati. Girardot, facendo il suo giro quotidiano nell’infermeria e vedendomi spesso, incominciò a dire tutte le mattine ironicamente, in francese: – Ecco un giovanotto sano come il Ponte Nuovo e che non vuol lasciare l’ospedale. – Risposi un paio di volte per le rime, ma infine, accorgendomi della sua malignità, persi la pazienza e mi adirai davvero. – Come osate parlarmi così? – esclamai, e aggiunsi: – Pregherò il dottore di proibirvi l’ingresso di questa camera! Girardot indietreggiò di un passo e i suoi occhi scuri scintillarono, le sue labbra sottili si strinsero più del solito. Finalmente disse: – Dunque vi ho offeso? Ebbene, abbiamo nell’atrio due pezzi d’artiglieria: volete battervi in duello?

– Io non scherzo, e vi dico che non tollero le vostre insinuazioni, – continuai. Non ripeté più il suo sciocco ritornello, ma mi prese in odio più che mai.

Fortunatamente per me non davo occasioni per castigarmi. Non fumavo, i miei abiti erano sempre in buono stato e abbottonati e messi bene in ordine la notte. Mi divertivo a qualsiasi giuoco, ma ero tanto occupato nella lettura e nella corrispondenza con mio fratello che trovavo appena il tempo per fare una partita a “lapta” nel giardino, e avevo sempre premura di ritornare ai miei libri. Quando ero colto in fallo, però, non ero io quello che Girardot puniva, ma l’anziano dal quale dipendevo. Una volta, per esempio, feci a pranzo nientemeno che una scoperta di fisica! Osservai che il suono fatto da un bicchiere dipende dalla quantità di acqua che contiene e cercai subito di ottenere un accordo con quattro bicchieri. Ma dietro di me stava Girardot, e senza una parola mise agli arresti il mio «anziano». Fortuna volle che fosse un ottimo ragazzo, un mio terzo cugino, che non volle sentire le mie scuse, dicendo: – Va bene, so che non ti può vedere. – Però i suoi compagni incominciarono a farsi sentire: – Stai attento briccone! Non intendiamo farci castigare per colpa tua! – E se la lettura non fosse stata la mia costante occupazione mi avrebbero probabilmente fatto pagar caro il mio esperimento di fisica. Tutti notavano l’antipatia che mi dimostrava Girardot, ma io non vi badavo, e probabilmente l’aumentavo con la mia indifferenza. Durante diciotto mesi non volle darmi le spalline, che si concedono di solito ai nuovi venuti dopo il primo o secondo mese di permanenza nella scuola; ma io ero perfettamente felice anche senza quella decorazione militare. Finalmente un ufficiale, il migliore istruttore della scuola, un uomo innamorato dell’esercizio, si offrì per istruirmi, e quando vide che facevo tutti gli esercizi in modo perfettamente soddisfacente, domandò egli stesso che mi fossero concesse le spalline. Il colonnello rifiutò di nuovo due volte di seguito, così che l’ufficiale se la prese come un’offesa personale; e quando il direttore del corpo gli chiese una volta come si spiegasse che io non avevo ancora le spalline, egli rispose bruscamente:

– Il ragazzo non ne ha colpa, è il colonnello che non vuole. – Dopo di che, probabilmente dietro osservazione del direttore, Girardot chiese per me un nuovo esame e mi dette le spalline il giorno stesso.

Ma l’influenza del colonnello declinava rapidamente. Il carattere della scuola subiva un cambiamento radicale. Durante vent’anni Girardot aveva realizzato il suo ideale che consisteva nell’avere i ragazzi ben pettinati, arricciati e di aspetto effeminato, e nel mandare alla Corte dei paggi compìti come i cortigiani di Luigi Quattordicesimo. Che si istruissero o no, poco gli importava: prediligeva quelli meglio forniti di spazzolini da unghie di ogni specie, di boccette di profumo, che avevano il vestito borghese (che si poteva indossare nei giorni di libera uscita) dal taglio migliore e che sapevano fare gli inchini più eleganti. Prima, quando Girardot faceva fare la prova di qualche cerimonia di Corte, drappeggiando un paggio in una coperta di cotonina a strisce rosse presa da uno dei nostri letti perché fungesse da imperatrice a un baciamano, i ragazzi si avvicinavano quasi devotamente all’imperatrice immaginaria, compivano seriamente la cerimonia di baciarle la mano e si ritiravano con un inchino elegantissimo; ma ora, anche se a Corte erano elegantissimi, alle prove facevano degli inchini così goffi che tutti si sbellicavano dal ridere, mentre Girardot impazziva dalla bile. Prima i ragazzi più giovani, quando erano condotti a un ricevimento di Corte, appositamente pettinati, si tenevano i riccioli tanto quanto duravano; ora, di ritorno dal palazzo, si affrettavano a mettere la testa sotto la fontana per farli sparire. Un contegno effeminato veniva deriso da tutti. Ormai si considerava più come una seccatura che come un favore essere mandati ai ricevimenti per fare da comparse ornamentali. E quando i ragazzi più piccoli, che venivano condotti ogni tanto a palazzo per giocare con i piccoli granduchi, accortisi che uno di questi, in un certo giuoco, si faceva una frusta del fazzoletto e se ne serviva largamente, vollero fare altrettanto e picchiarono tanto un granduca da farlo piangere, Girardot ne fu spaventatissimo, ma il vecchio ammiraglio di Sebastopoli, che era il precettore del granduca, non ebbe che lodi per i nostri compagni.

Nel Corpo dei Paggi, come in tutte le altre scuole, andava prevalendo un nuovo spirito, di serietà e di studio. Un tempo i paggi, certi di ottenere, con un mezzo o con l’altro, i punti necessari per essere nominati ufficiali nel reggimento della Guardia, passavano i primi anni alla scuola senza imparare quasi niente, e incominciavano a studiare un poco solo nelle ultime due classi; ora anche nelle classi inferiori si studiava con serietà. Anche moralmente il tono era ben diverso da quello di qualche anno prima. I divertimenti orientali erano ritenuti disgustosi e un paio di tentativi per ritornare al vecchio sistema dettero luogo a scandali la cui eco giunse fin nei saloni di Pietroburgo. Girardot fu licenziato. Ebbe solo il permesso di conservare il suo appartamento da scapolo nell’edificio della scuola, e lo vedevamo spesso, avvolto nel lungo mantello militare, passeggiare su e giù, immerso nei suoi pensieri – tristi, suppongo – perché non poteva che disapprovare il nuovo spirito che rapidamente si affermava nel Corpo dei Paggi.

In tutta la Russia non si parlava che di educazione. Appena firmata la pace a Parigi, la severità della censura diminuì e la questione dell’educazione diventò argomento di discussioni animate. L’ignoranza delle masse popolari, gli ostacoli posti fino a quel giorno sulla via di chi volesse istruirsi, la mancanza di scuole nelle campagne, i sistemi di insegnamento antiquati e i rimedi per questi mali divennero l’argomento prediletto delle discussioni nei circoli, nella stampa e, persino, nei saloni dell’aristocrazia. Le prime scuole superiori femminili si inaugurarono nel 1857 con un ottimo corpo di insegnanti e un eccellente sistema d’insegnamento. Come per incanto un gran numero di uomini e di donne si fecero avanti e non soltanto si dedicarono all’insegnamento, ma dimostrarono di essere nel loro lavoro degli ottimi studiosi di pedagogia: i loro scritti avrebbero un posto d’onore nella letteratura di ogni paese civile, se fossero conosciuti all’estero.

Il Corpo dei Paggi sentì gli effetti di questo risveglio. Salvo poche eccezioni, la tendenza generale nelle tre classi inferiori era di studiare. L’ispettore Vinkler che dirigeva la sezione culturale, un colonnello d’artiglieria molto colto, un bravo matematico e un uomo di idee progressive, trovò un sistema eccellente per incoraggiare questo spirito. Sostituì i professori poco capaci che prima insegnavano nelle classi inferiori con altri migliori. Non si era mai abbastanza bravi per insegnare i primi elementi di una materia a dei ragazzi, e così per insegnare i primi princìpi dell’algebra alla quarta classe invitò un matematico di prim’ordine, con la vocazione dell’insegnante, il capitano Soukhonin, e la classe si appassionò immediatamente alle matematiche. A proposito, il caso volle che questo capitano fosse il precettore dell’erede al trono (Nicola Alexandrovic, che morì a ventidue anni) il quale veniva una volta la settimana al Corpo dei Paggi per sentire la lezione di algebra del capitano Soukhonin. L’imperatrice, Maria Alexandrovna, donna colta, sperava che la compagnia di ragazzi studiosi avrebbe incoraggiato suo figlio nell’amore per lo studio. Sedeva con noi e doveva rispondere alle domande come gli altri. Ma per lo più, mentre il professore parlava, faceva dei disegni molto graziosi e sussurrava scherzi di ogni genere ai suoi vicini. Era di buon cuore e molto gentile, ma molto superficiale negli studi, e ancor più negli affetti.

                Per la quinta classe l’ispettore procurò degli insegnanti di valore. Venne un giorno da noi tutto contento a dirci che avevamo avuto una rara fortuna. Il professor Klassovski, famoso classicista e specialista in letteratura russa, accettava di insegnarci grammatica russa per tutte e cinque le classi.

Un altro professore di università, Herr Becker, bibliotecario della libreria imperiale nazionale, avrebbe fatto altrettanto per il tedesco. Aggiunse che il professor Klassovski quell’inverno era un poco sofferente, ma che non dubitava che ci saremmo comportati con lui da ragazzi bene educati. Non dovevamo perdere l’occasione di avere un simile insegnante. Non si era sbagliato. Eravamo molto orgogliosi di avere per insegnanti dei «professori da università», e quantunque dal Kamciatka (in Russia gli ultimi banchi di ogni classe portano il nome di quella lontana e selvaggia penisola) venisse la voce che «il fabbricante di salsicce», cioè il tedesco, doveva essere tenuto a ogni costo alla larga, l’opinione pubblica della nostra classe era francamente favorevole al professore. Il «fabbricante di salsicce» conquistò subito il nostro rispetto. Un uomo alto di statura, dalla fronte spaziosa, con gli occhi dolci e intelligenti, leggermente velati dagli occhiali, si presentò alla nostra classe e ci disse in un russo eccellente che intendeva dividere la nostra classe in tre sezioni. La prima sarebbe stata composta dai tedeschi, che già conoscevano la lingua e dai quali si aspettava un lavoro più serio; alla seconda sezione insegnerebbe la grammatica e, più tardi, la letteratura tedesca secondo i programmi stabiliti; e la terza sezione, concluse con un simpatico sorriso, sarebbe il Kamciatka. «Da voi, – disse, – pretenderò solo che a ogni lezione copiate quattro righe che vi sceglierò in un libro. Fatto questo, sarete liberi di fare quello che vi piace, purché non disturbiate gli altri. E vi prometto che in cinque anni avrete acquistato una certa conoscenza del tedesco e della letteratura tedesca. E ora, chi sarà nel gruppo dei tedeschi? Voi, Stackelberg? Voi, Lansdorf? Qualcuno dei russi, forse? E chi vuoi essere del Kamciatka?» Cinque o sei ragazzi che non sapevano una sillaba di tedesco andarono a occupare gli ultimi banchi. Copiavano scrupolosamente le loro quattro righe – dodici o venti nelle classi superiori – e Becker scelse questo esercizio con tanto giudizio, e si occupava con tanta cura di questi ragazzi, che alla fine dei cinque anni essi sapevano veramente qualche cosa della lingua tedesca e della sua letteratura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento di artiglieria della scuola

Io appartenni al gruppo dei tedeschi. Mio fratello Alessandro insisteva tanto nelle sue lettere sulla necessità per me di imparare il tedesco, che ha una letteratura tanto ricca e che possiede la traduzione di ogni nuovo libro importante, che mi misi a studiarlo assiduamente. Tradussi e studiai a fondo una descrizione poetica di una tempesta, una pagina molto difficile; imparai a memoria, per consiglio del professore, le congiunzioni, gli avverbi e le preposizioni e incominciai a leggere. E’ un eccellente sistema per imparare le lingue. Becker inoltre mi consigliò di abbonarmi a un giornale settimanale illustrato di poco prezzo, e le illustrazioni e i brevi racconti mi incoraggiavano continuamente a leggere qualche linea o una colonna. Ben presto fui padrone della lingua. Verso la fine dell’inverno pregai Herr Becker di prestarmi un esemplare del “Faust” di Goethe. L’avevo letto in una traduzione russa, e conoscevo il bellissimo romanzo del Turgheniev intitolato “Faust”; ora desideravo ardentemente leggere il lavoro nell’originale. – Non capirete nulla, è troppo filosofico – mi disse Becker con il suo sorriso dolce; ma ciò nonostante mi portò un piccolo libro quadrato dalle pagine ingiallite dagli anni, che conteneva il dramma immortale. Certo non immaginava la profonda gioia che mi diede con quel piccolo, desiderato volume. Mi immedesimavo nel senso e nella musica di ogni verso, a cominciare proprio dai primi della dedica, e presto seppi a memoria pagine intere. Il monologo di Faust nella foresta, e soprattutto quei versi nei quali esprime il suo modo di capire la natura:

“Tu…
mi concedi una conoscenza non soltanto fredda e stupita,
ma permetti che io fissi i misteri
del suo cuore, come si studia il cuore di un amico.”

mi estasiavano e oggi ancora esercitano lo stesso fascino su di me. Ogni verso diventava per me un caro amico. C’è forse un godimento estetico più elevato di quello dato dalla lettura della poesia in una lingua che non si capisce perfettamente? Tutto è velato da una nebbia leggera che si adatta mirabilmente alla poesia. Parole che con il loro senso banale per chi conosce a fondo la lingua nuocciono a volte all’immagine poetica che debbono evocare, conservano solo il loro senso più elevato e profondo, mentre la misura del verso si imprime anche più profondamente nell’orecchio. La prima lezione del professor Klassovski fu per noi una vera rivelazione. Era un uomo di statura bassa, di una cinquantina d’anni, dalle movenze rapidissime, dagli occhi intelligenti e scintillanti, con una fronte alta da poeta. Quando entrò per la prima lezione, ci disse con voce debole che soffriva per una lunga malattia e che non poteva parlare a voce alta: ci pregava dunque di sedere più vicini a lui. Avvicinò la sua sedia alla prima fila dei nostri banchi e noi lo circondammo come uno sciame di api.

Doveva insegnarci la grammatica russa, ma invece di una noiosa lezione di grammatica sentimmo una cosa affatto diversa da quanto ci aspettavamo. Si trattava sempre di grammatica, ma ora faceva un paragone fra un’espressione di qualche poeta epico russo e un verso di Omero o del “Mahabharata”, traducendo la bellezza del verso sanscrito con parole russe; ora introduceva un verso di Schiller, seguito da un’osservazione sarcastica a proposito di qualche pregiudizio della società moderna; poi di nuovo la grammatica propriamente detta, e poi qualche vasta generalizzazione poetica o filosofica. Naturalmente molto di quello che diceva noi non lo capivamo, o ce ne sfuggiva il senso più profondo. Ma forse che il fascino di ogni studio non consiste nell’aprirci nuovi e insospettati orizzonti, non ancora del tutto compresi? Che cosa incoraggia a indagare sempre più, se non quello che a prima vista si rivela solo come un insieme confuso? Alcuni con le mani appoggiate alle spalle dei compagni, altri sporgendosi sui tavoli della prima fila, altri ancora in piedi intorno a Klassovski, tutti pendevamo dalle sue labbra. Quando verso la fine dell’ora la sua voce si affievoliva, ascoltavamo trattenendo il respiro. Il direttore socchiuse la porta dell’aula per vedere come ci comportavamo con il nuovo insegnante, ma vedendo quello sciame immobile si ritirò in punta di piedi. Persino Larauf, uno spirito irrequieto, fissava Klassovski come per dire: – Siete dunque un uomo di nuovo genere? – Persino von Kleinau, uno stolido circasso dal nome tedesco, stava immobile. Nel cuore di noi tutti nasceva qualche cosa di nobile e di buono, come se ci fosse rivelata la visione di un nuovo mondo. Klassovski ebbe su di me una grande influenza, che aumentò con gli anni. La profezia di Winkler si realizzava: la scuola incominciava a piacermi.

Fine 2 parte

Estratto da:

Piotr Alexeievic Kropotkin
MEMORIE DI UN RIVOLUZIONARIO
Traduzione di Letizia Pajetta Berrini
© 1968 Editori Riuniti, Roma
© 1969 Edizione Universale Economica Feltrinelli