Palazzo Voronstov sede “Corpo Imperiale dei Paggi”

Si realizzava così l’ambito sogno di mio padre. Vi era un posto vacante nel Corpo dei Paggi e io l’ottenni prima di aver superato l’età fissata per l’ammissione; fui condotto, a Pietroburgo ed entrai nella scuola. Solo centocinquanta ragazzi – quasi tutti figli di nobili appartenenti alla Corte – erano educati in questo corpo privilegiato, che univa il tipo di scuola militare dotata di diritti speciali a quello di un istituto di corte dipendente dalla famiglia imperiale. Dopo quattro o cinque anni trascorsi nel Corpo dei Paggi, quelli che passavano l’esame finale diventavano ufficiali in qualunque reggimento della Guardia o dell’esercito scegliessero, senza tener conto del numero dei posti vacanti in quel reggimento; e ogni anno i primi sedici allievi della classe superiore erano nominati “pages de chambre”: erano cioè addetti personalmente ai membri della famiglia imperiale, all’imperatore, all’imperatrice, alle granduchesse e ai granduchi. Naturalmente era considerato un grande onore; i giovani che si distinguevano in questo modo si facevano conoscere alla Corte e avevano ogni probabilità di venir poi nominati aiutanti di campo dell’imperatore o di uno dei granduchi e avevano quindi mille facilitazioni per una carriera brillante al servizio dello Stato. I padri e le madri prendevano perciò tutte le misure possibili perché i loro ragazzi potessero entrare nel Corpo dei Paggi, anche se la loro ammissione doveva essere a scapito di quella di altri candidati, per i quali non si presentava mai un posto vacante. Ora finalmente ero entrato a far parte di un corpo tanto ambito, mio padre poteva concedere libero corso ai suoi sogni più ambiziosi.
Il corpo comprendeva cinque classi, delle quali la prima era la più alta, la quinta l’ultima: era stato deciso che io sarei passato nella quarta. Ma agli esami si trovò che non avevo sufficiente familiarità con le frazioni decimali, e siccome quell’anno vi erano più di quaranta allievi nella quarta, e soltanto venti nella quinta, entrai in quest’ultima.
La decisione mi dispiacque molto. Entravo malvolentieri in una scuola militare, e ora ci dovevo restare cinque anni invece di quattro! Cosa potevo fare in quinta, quando sapevo già tutto quello che vi si insegnava? Con le lacrime agli occhi ne parlai all’ispettore – il direttore per la parte culturale – ma egli mi rispose scherzando: – Sapete, – mi disse, – le parole di Cesare; meglio essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma. – Io risposi con calore che avrei preferito essere l’ultimo di tutti pur di lasciare la scuola militare il più presto possibile. – Forse fra non molto vi affezionerete alla scuola, – osservò; e da allora in poi fu sempre gentile con me.
Al professore di matematica che cercava anch’egli di consolarmi, diedi la parola d’onore di non aprire mai il libro di testo, avvertendolo che avrebbe dovuto darmi ugualmente il massimo dei voti. Mantenni la parola, ma riflettendo ora a questa scena penso di non essere stato uno scolaro troppo docile.

Ripensando a quel lontano passato, non posso che sentirmi grato di essere stato messo in quella classe. Dovendo soltanto ripetere durante il primo anno quello che sapevo già, mi abituai a imparare ascoltando le parole del professore durante le.lezioni, e finite queste avevo tutto il tempo di leggere e scrivere quanto volevo. Non studiavo mai per gli esami e passavo il tempo che ci veniva concesso a quello scopo a leggere ad alta voce a un piccolo gruppo di amici i drammi di Shakespeare o di Ostrovski. Quando entrai nella classe superiore «speciale» ero anche preparato meglio per capire tutte le materie che dovevamo studiare. Inoltre passai più della metà del primo inverno all’ospedale. Come tutti i ragazzi nati fuori di Pietroburgo, dovetti pagare un forte tributo alla «capitale sulle paludi della Finlandia» sotto forma di qualche attacco di colera e anche di febbre tifoidea.
Quando entrai nel Corpo dei Paggi, la vita all’interno di questo istituto stava subendo una profonda modificazione. L’intera Russia si svegliava allora dal sonno pesante e dall’incubo tremendo del regno di Nicola Primo. La nostra scuola sentì gli effetti di questo risveglio. Non so davvero che sarebbe stato di me se vi fossi entrato qualche anno prima. O la mia volontà sarebbe stata del tutto spezzata, o sarei stato espulso dalla scuola, chi sa con quali conseguenze. Fortunatamente il periodo di transizione era già inoltrato nel 1857.
Il direttore del corpo era un ottimo vecchio, il generale Jeltukhin, ma non era che il capo nominale. Il vero padrone della scuola era «il colonnello», colonnello Girardot, un francese al servizio della Russia. Si diceva che fosse un gesuita, e io lo credo. In ogni modo era certamente imbevuto delle teorie del Loyola e il suo sistema educativo era quello in voga nei collegi dei gesuiti in Francia.
Immaginatevi un uomo piccolo e magrissimo, dagli occhi neri penetranti, con i baffi tagliati corti che gli davano un’espressione felina, molto calmo e deciso; di un’intelligenza media, ma straordinariamente furbo; un despota in fondo, capace di odiare di un odio intenso il ragazzo che non subiva il suo ascendente e di far sentire quell’odio non per mezzo di persecuzioni stupide, ma incessantemente, in ogni suo atto, per mezzo di una parola detta a caso, di un gesto, di un sorriso, di un’esclamazione. Non camminava, strisciava, e il contrasto dell’immobilità del suo capo con il suo sguardo mobilissimo e indagatore completava quell’impressione. Un’espressione di fredda indifferenza era stampata sulle sue labbra anche quando voleva aver l’aria benevola, e questa espressione diventava ancor più crudele quando la sua bocca si contraeva in un sorriso di disprezzo o di disapprovazione. Con tutto questo non aveva l’aria dittatoria, faceva piuttosto pensare a prima vista a un padre benevolo che discorre con i suoi ragazzi come se fossero già grandi.
Ma ben presto si sentiva che tutto e tutti dovevano piegarsi alla sua volontà. Guai a quel ragazzo che non si mostrava felice o infelice a seconda dell’umore del colonnello a suo riguardo.
Le parole «il colonnello» erano sulle labbra di tutti continuamente. Gli altri ufficiali erano conosciuti con i loro soprannomi, ma a Girardot nessuno osava dare un soprannome. Era avvolto da una aureola di mistero, come se fosse onniscente e onnipresente. Passava tutto il giorno e parte della notte nella scuola; anche quando eravamo in classe gironzolava qua e là, aprendo le nostre cassette con la sua chiave. Passava gran parte della notte a segnare su certi quadernetti di cui aveva una vera biblioteca, su colonne speciali e a diversi colori, i difetti e le qualità di ogni ragazzo.
I giuochi, gli scherzi, le conversazioni cessavano immediatamente quando lo si vedeva avanzare lentamente nelle nostre grandi sale, accompagnato da uno dei suoi favoriti, dondolandosi sui fianchi, sorridendo a un ragazzo, scrutandone un altro con occhio indagatore, dando a un terzo un’occhiata indifferente, torcendo la bocca alla vista di un quarto; e da questi sguardi tutti capivano che il primo ragazzo gli piaceva, che il secondo gli era indifferente; che ignorava di proposito il terzo e che il quarto gli era antipatico. Questa antipatia era sufficiente a spaventare la maggior parte delle sue vittime; tanto più se non se ne capiva il motivo. Ragazzi sensibili erano stati ridotti alla disperazione da quella muta, incessante ostilità e da quegli sguardi sospettosi; in altri aveva avuto per effetto di spezzarne del tutto la volontà, come uno dei Tolstoi – Teodoro, anch’egli scolaro del Girardot – ha mostrato in un suo romanzo autobiografico, “Le malattie della volontà”.

Fine 1 parte

Estratto da:

Piotr Alexeievic Kropotkin
MEMORIE DI UN RIVOLUZIONARIO
Traduzione di Letizia Pajetta Berrini
© 1968 Editori Riuniti, Roma
© 1969 Edizione Universale Economica Feltrinelli